Pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Communications un articolo scientifico su nuovi dati sull’edilizia romana, emersi grazie a indagini nell’ultimo cantiere di scavo di Pompei, la Regio IX
Da secoli, le strategie costruttive degli antichi Romani hanno affascinato studiosi provenienti da un'ampia gamma di discipline, tra cui storia, archeologia, scienza dei materiali e ingegneria. La rivoluzione architettonica romana, basata sui progressi nella tecnologia del calcestruzzo, ha portato alla realizzazione di opere di costruzione e innovazioni urbanistiche senza precedenti. In particolare, i Romani avevano perfezionato la produzione di calcestruzzo idraulico durevole (opus caementicium) utilizzando cenere vulcanica (pozzolana) e ceramica cotta frantumata (cocciopesto). Questa tecnologia consentì l'edificazione di strutture ampie e stabili in grado di sostenere forme architettoniche complesse come archi, volte e cupole, portando alla creazione di strutture iconiche come il Pantheon.
Nonostante la vasta ammirazione per la complessità strutturale e il significato culturale di queste opere, la conoscenza dei processi costruttivi reali utilizzati per la loro creazione è rimasta sorprendentemente limitata a causa della scarsità di prove fisiche ben conservate. Gran parte delle informazioni attuali sulle tecniche romane provengono da registrazioni scritte, in particolare dalle descrizioni dettagliate di materiali e metodi fornite dall'ingegnere e architetto Vitruvio nel suo "De Architectura".
Una scoperta unica a Pompei
Un'opportunità eccezionale per comprendere appieno l'ingegneria edile romana è emersa dai recenti scavi nella Regio IX di Pompei, dove è stato portato alla luce un cantiere antico intatto (Domus IX 10, 1). L'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. ha sepolto completamente la città, congelando le attività quotidiane e preservando le evidenze archeologiche da disturbi successivi all'eruzione.
Il sito di Domus IX 10, 1 era attivo al momento dell'eruzione, permettendo la documentazione diretta in situ dei materiali, degli strumenti e dei processi di costruzione impiegati. Gli scavi hanno rivelato numerosi cumuli di materiali da costruzione riciclati, tra cui pietre laviche, calcare, frammenti di tegole e ceramiche, tutti accantonati per il riutilizzo nei lavori di muratura in corso. La presenza di strumenti come un peso in piombo, attrezzi di ferro, uno scalpello e fili a piombo in bronzo e ferro, suggerisce pratiche costruttive precise e l'impiego di manodopera qualificata. Questi strumenti sono indicativi della gestione del progetto e della necessità di misurare accuratamente i rapporti dei materiali per formulazioni coerenti di cemento e malta.
Particolarmente rilevante è stato il ritrovamento, nella stanza 14, di un grande cumulo di materiali pre-miscelati a secco (PM), contenente granuli di calce viva a bassa densità miscelati con pozzolana e pronti per l'uso immediato.
La tecnica della "Miscelazione a Caldo"
Le analisi microstrutturali e chimiche dei materiali raccolti — da muri già costruiti, muri in costruzione e cumuli di materie prime a secco — hanno fornito prove inequivocabili di come la calce viva venisse pre-miscelata a secco con pozzolana prima di aggiungere acqua. Questo metodo di costruzione è noto come miscelazione a caldo (hot mixing).
La miscelazione a caldo innesca una reazione esotermica all'interno della malta. Questa reazione, che aumenta significativamente la temperatura della miscela, talvolta superando i 200 °C in punti localizzati, provoca la formazione di clasti di calce. I clasti di calce sono inclusioni di calce non completamente disciolta o idratata che appaiono porose, birifrangenti e mostrano fratture da ritiro, caratteristiche tipiche dell'uso di calce viva nella miscela.
Questa evidenza contrasta con la tradizionale interpretazione delle descrizioni di Vitruvio, che suggerivano l'uso di calce spenta (calx extincta), prodotta riscaldando calcare e poi mescolando la calce viva (CaO) con acqua per creare calce idratata (Ca(OH)2). I risultati di questo studio supportano fortemente l'uso della miscelazione a caldo come metodo primario per la preparazione delle malte architettoniche romane.
Le analisi isotopiche di carbonio e ossigeno hanno fornito un'ulteriore conferma: i campioni prelevati dal cumulo di materiali pre-miscelati (PM) e dai nuovi muri (W1) mostrano firme isotopiche coerenti con l'idratazione e l'idrossilazione cinetica della CO₂ atmosferica in un ambiente con acqua limitata, un modello che si allinea perfettamente con la miscelazione a caldo che utilizza l'aggiunta diretta di calce viva.
Calcestruzzo che si autoripara
I clasti di calce non sono semplici difetti di miscelazione, ma contributori chiave alla capacità di auto-riparazione e alla reattività post-pozzolanica a lungo termine delle malte idrauliche romane.
Questa proprietà si manifesta quando il materiale viene esposto all'acqua. I clasti non disciolti mantengono un nucleo reattivo ricco di calcio che, quando esposto all'acqua, si dissolve lentamente nella rete di fessure e pori all'interno della matrice. L'analisi ha mostrato la progressiva ridistribuzione del calcio, evidenziata dall'osservazione dello svuotamento in alcuni clasti.
Il calcio disciolto reagisce poi con i materiali pozzolanici e con i fluidi porosi carbonati, portando alla formazione aggiuntiva di fasi di silicato di calcio alluminio idrato (C-A-S-H) e alla ricristallizzazione di vari polimorfi di carbonato di calcio, inclusi calcite e aragonite, all'interno di crepe e pori. Questo processo funziona efficacemente come meccanismo di riempimento delle fessure, riducendo la porosità e stabilizzando la microstruttura, migliorando così la resistenza all'intrusione dell'acqua.
Inoltre, l'analisi dei bordi di reazione attorno agli aggregati vulcanici (come la pomice) ha dimostrato un rimodellamento dell'interfaccia aggregato/matrice. Gli ioni di calcio, originati dalla dissoluzione dei clasti di calce, diffondono e remineralizzano, producendo fasi amorfe e vari polimorfi di carbonato di calcio. Questo rimodellamento post-pozzolanico non solo consolida, ma migliora anche le proprietà meccaniche del calcestruzzo nel tempo, conferendogli resistenza alla propagazione delle fessure e una maggiore durabilità.
Implicazioni per il futuro
Le scoperte a Pompei, e l'analisi dettagliata dei materiali, rivelano un approccio sistematico e altamente organizzato alla costruzione romana. Sebbene la miscelazione a caldo fosse comune per il calcestruzzo strutturale (come nei cumuli PM e nel muro W1), l'analisi suggerisce che la calce spenta, preparata in piccole quantità (forse nelle anfore trovate), fosse probabilmente utilizzata per migliorare la lavorabilità nelle malte di riparazione (MR) e per strati di finitura come arriccio e intonachino. Questo evidenzia un approccio adattivo alla produzione di malta, dove gli aggiustamenti dei materiali erano impiegati per soddisfare diverse esigenze funzionali.
Comprendere i metodi e i materiali specifici utilizzati nell'antica costruzione romana offre spunti preziosi per gli sforzi di conservazione moderni. Fornendo una base scientifica per lo sviluppo di calcestruzzi più durevoli e sostenibili e di materiali di restauro compatibili con le pratiche antiche, questa ricerca avanza non solo la nostra comprensione storica, ma contribuisce anche al futuro dell'ingegneria dei materiali. La combinazione di prove archeologiche con analisi avanzate (petrografiche, EDS, Raman e isotopiche) stabilisce un percorso solido per distinguere con sicurezza l'uso di calce viva e calce spenta, permettendo di valutare l'applicazione spaziale e temporale più ampia di ciascun approccio in tutto l'Impero Romano.
Il calcestruzzo romano, con il suo meccanismo intrinseco di auto-riparazione potenziato dalla miscelazione a caldo, agisce come una sorta di sistema immunitario minerale [Parafrasi per analogia], in cui i clasti di calce agiscono come riserve di calcio che, quando attivate dall'acqua, avviano un processo di cristallizzazione che ripara attivamente i danni, mantenendo l'integrità strutturale per secoli.
Fonte: Nature Communications
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