Conferenza tenuta l'11 dicembre 1999 dal Prof. Stefano De Caro
Soprintendente archeologico delle province di Napoli e Caserta.


Fino alla fine dell'800 la pittura pompeiana fu studiata per quadri. La scienza antiquaria del 7-800 aveva studiato la pittura di Pompei, anzi l'aveva capita solo, come quadri. Questa tendenza si è poi sostanzialmente rovesciata da Mau in poi. Fu Mau che, nella sua storia dei sistemi decorativi della pittura pompeiana, studiò appunto quella pittura non più come quadri, ma come "primo stile", "secondo stile", "terzo stile", "quarto stile", vale a dire come sistemi decorativi. Nella definizione dello stile il quadro giocava una parte non più sostanzialmente rilevante; esisteva il quadro, ma come parte della parete. Per tutto questo secolo, sulla scia del Mau, è stato sempre così. A parte pochi studi, soprattutto di tradizioni iconografiche sull'insieme dei quadri come riflessi di un programma decorativo, nessuno più ha studiato il quadro in quanto tale. Questo, secondo me, soprattutto per quanto riguarda alcuni generi, ha determinato un impoverimento, perché il quadro per gli antichi aveva grandissima importanza. Diceva un famoso autore latino: "Nessuna gloria vi è nella pittura se non nei quadri". La pittura parietale era considerata artigianato, ma i famosi pittori Zeusi, Parrasio, Polignoto erano fondamentalmente pittori di quadri; nei grandi santuari i capolavori erano quadri, e i quadri della pittura di Pompei sono il riflesso di pittura su tavola, i cui autori non erano meno famosi di Rembrandt, Van Gogh, e altri; era vera pittura da cavalletto. Quindi dobbiamo rivalutare il fatto che nelle pareti pompeiane vi è il riflesso di un vero e proprio genere artistico, la natura morta. "Natura morta" è un termine moderno, postbarocco, del tardo Rinascimento, tradotto in molti modi diversi nelle lingue europee. Per gli inglesi è "still-life", cioè la vita ferma, tranquilla; per i tedeschi e per gli olandesi, "stil leben"; per gli spagnoli, la "naturaliza muerta" o "bodegàn". Gli antichi chiamavano le nature morte "xenia", "i doni ospitali", la frutta, le uova, la verdura, le semplici cose di campagna che il buon padrone di casa era solito inviare crude ai propri ospiti nelle loro stanze, perché potessero prepararsele quando volevano; un pò come si usa nei grandi alberghi moderni dell'America e dell'Asia, dove agli ospiti si serve un cestino con la verdura e la frutta. Vitruvio ci informa che il nome era passato a designare i quadretti dipinti con gli stessi oggetti. La conferma che gli antichi usassero effettivamente questo nome per la pittura di natura morta ci viene da un passo del retore greco di Lemno, Flavio Filostrato il Vecchio, della fine del II secolo d.C., il quale, descrivendo una galleria di quadri che lui ha ammirato a Napoli e che commenta per un gruppo di suoi giovani condiscepoli, definisce chiaramente come "xenia" due composizioni perdute, la cui descrizione corrisponde esattamente al genere che le pitture pompeiane raffigurano. Una di esse raffigurava, infatti, fichi, noci, pere, ciliegie, uva con miele, formaggi, e del latte con i vasi. L'altro genere rappresentava una lepre viva e una lepre morta, un'anatra spiumata, diversi tipi di pane, frutta fresca, castagne e fichi. La testimonianza di Filostrato è preziosa anche perché ci presenta il punto di vista critico di un intellettuale evidentemente informato di cose d'arte, e pure se cade circa un secolo dopo le pitture di Pompei, il suo giudizio potrebbe tranquillamente applicarsi ad esse, perché, come vedremo, questo genere aveva avuto poche trasformazioni dall'età ellenistica in poi. Quando Filostrato insiste, infatti, sulle qualità realistiche dei dipinti e sulla capacità della pittura di fermare sulla tela la bellezza fuggente del reale confondendo l'arte, la realtà e la sua rappresentazione, la sua valutazione non è, difatti, distinguibile da quelle delle fonti ellenistiche. Il suo passo è: "Perché non prendi questi frutti che sembrano fuoriuscire dai due cesti? Non sai che se aspetti anche soltanto un poco non li troverai più come sono ora, con la loro trina di rugiada?". Quindi questa "ut natura poesis", l'arte quasi come rappresentazione migliore della natura. La pittura greca dell'età arcaica e classica aveva sostanzialmente ignorato il tema della natura morta. Anche se l'abbiamo totalmente perduta, possiamo tranquillamente desumere dalle fonti e dal loro riflesso, la ceramica figurata, che l'immagine dipinta fu per i greci fondamentalmente l'immagine dell'uomo; la pittura greca d'età arcaica e classica è pittura antropocentrica. I piatti con le vivande, che troviamo sulle mense degli eroi nelle scene di banchetto della ceramica corinzia e attica, esistono, ma sono soltanto funzionali alla scena complessiva, nella quale il ruolo principale è giocato dall'uomo.

Una prima innovazione si manifesta verso la fine del V secolo a.C., quando su un vaso attico a figure rosse compare una panoplia d'armi isolate che allude all'eroe morto; invece di rappresentare l'uomo morto, ci sono le sue armi a mo' di metafora, di simbolo. E' lo stesso uso simbolico dell'oggetto che poi troveremo nelle rappresentazioni d'armi isolate della pittura funeraria greca; in Macedonia, in Puglia, e in Campania molto spesso sono rappresentate le armi isolate, che alludono alla gloria dell'eroe. In queste immagini sono sistematicamente usate come allusioni al valore del defunto, allo stesso modo di altri oggetti inanimati che compaiono nella ceramica coeva, come quell'alessandrina di Hadra, o quella opula di Gnazia. Troviamo maschere che alludono al teatro, strumenti musicali che alludono alla musica, specchi, ciste, ventagli e pantofole che simboleggiano la bellezza femminile; non sono fine a se stesse, alludono all'uomo. Un altro elemento che concorre al formarsi della natura morta antica è l'uso di dotare la tomba di un corredo di oggetti o di cibi per la vita dell'aldilà, gli oggetti come corredo per la morte. In quest'ambito si scopre che, da un determinato momento, i cibi (uova, uva, melograni vari), per loro natura deperibili, sono sostituiti dalle loro rappresentazioni in pittura, in terracotta e forse anche in legno e in cera. Non c'è dubbio che questo meccanismo della sostituzione simbolica fosse estesa ad altri ambiti rituali, in cui ricorreva l'offerta in effige, soprattutto quella del culto delle divinità, come mostrano le terrecotte di Locri fin dal V secolo a.C. Un altro esempio è la lastra corta della famosa Tomba dei Cavalieri, già imitata a Paestum, proveniente da Nola e conservata al Museo Nazionale di Napoli. Vi è rappresentata l'offerta per il defunto, una specie di altare con sopra due brocche di bronzo e un oinochòe d'argento, e sotto, in posizione assolutamente innaturale, due uova e un melograno. Sono rappresentate evidentemente come simboli; sono il corredo per il morto, allusioni all'eternità della vita post mortem: il melograno è il simbolo della vita ultraterrena, le uova, del potere rigeneratore della natura, del seme, della vita, ecc.

In questo periodo si è già formato sostanzialmente il genere. All'epoca di Aristotele esistevano già rappresentazioni di cadaveri di animali, che però erano considerate, e questa sarà sempre una caratteristica della divisione in generi dell'arte, arte di poco conto. In una recente mostra allestita al Louvre su Chardin, un grande pittore di nature morte, si è compreso che si pagava meno la pittura di natura morta. La più quotata era la pittura degli dèi, la pittura di Dio, poi seguivano la pittura storica, la pittura di paesaggi e ritratti, la pittura di paesaggio, e, all'ultimo posto, la pittura di natura morta. Ciò significa che è il soggetto, più che la qualità della rappresentazione artistica, che determina il compenso del pittore. In queste fonti sembra di assistere al passaggio, mai peraltro veramente risolto nella natura morta antica, da un originale rapporto delle cose con l'uomo, o meglio con la funzione che l'uomo ha loro attribuito in circostanze precise, ad una considerazione delle cose in sé, quali portatrici di valori estetici autonomi, come quando, "mutatis mutandis", nel dipingere il suo canestro di frutta dell'Ambrosiano di Milano, "Caravaggio", rilevava Roberto Longhi, "ha definitivamente sciolto il genere da secondi significati religiosi o filosofici, collocandolo sullo stesso piano della figura umana". Quando Caravaggio dipinge il suo canestro, ha dipinto una cosa che valeva come un Cristo morto, e quindi ha sciolto questo genere dal significato evidentemente religioso che sempre aveva avuto la natura morta precedente. Qualcosa del genere era successo anche nell'antichità; nel passaggio dal mondo religioso, dal mondo della sfera funeraria, alla rappresentazione di per sé, semplicemente estetica, come dice Aristotele, si era evidentemente consumato un passaggio, che è quello, se volete, della polis, quello della guerra persiana, di Sofocle, attraverso Socrate al mondo della commedia di Terenzio, in cui valgono i valori borghesi delle piccole cose. L'accento viene ora tutto posto sulla fedeltà della rappresentazione, sul realismo che è capace d'ingannare secondo un metro di giudizio che si era forse già instaurato alla fine del V secolo a.C., se ha qualche valore l'aneddoto di Plinio sugli uccelli che vanno a beccare gli acini dell'uva dipinta nel quadro di Zeusi, o l'altro famoso aneddoto della gara tra Zeusi e Parrasio, davanti al cui dipinto pendeva una tela: Zeusi cercò di sollevare con una mano la tela, ma, non accorgendosi che era dipinta, col suo gesto segnò la vittoria dell'avversario. Invece, dalla fine del IV secolo a.C. gli epigrammi ellenistici dell'Antologia Palatina, famosissima raccolta bizantina in cui erano confluiti tutti gli epigrammi dell'antichità in lingua greca, testimoniano anch'essi l'avanzare di questa tendenza. L'originale contenuto religioso si va sempre più illanguidendo, sia negli oggetti rappresentati sulle tombe sia in quelli dedicati come "ex voto" alle divinità, fino a diventare un puro pretesto se non si trapassa addirittura nello scherzo. Sicché la descrizione dell'oggetto finisce per prevalere nella sua autonomia sul senso del sacro. Così il bastone, i sandali, una bottiglia sudicia e una bisaccia consunta fanno da insegna alla tomba del filosofo Cinico; il bicchiere sta sulla tomba della vecchia ubriacona, un'elegante conchiglia a forma di nautilo è dedicata dalla fanciulla Seleni ad Afrodite, mentre alle ninfe, a Ermes, e a Pan, un pastore offre una focaccia di orzo e miele e un bicchiere di vino. Alle ninfe il viandante dava il corno col quale ha bevuto alla loro fonte, il giardiniere offre alle stesse dee i frutti di stagione, i contadini offrono ad Ermes e ad Eracle, custodi dei confini, mele e grappoli d'uva sia messi in bell'ordine sia disposti alla rinfusa. La fonte letteraria sottolinea la bellezza del fatto che gli oggetti siano confusi, la bellezza del disordine. A Ermes, protettore del colle coltivato del pascolo, caprai e ortolani insieme dedicano cavoli, latte e altri prodotti.

Quando la natura morta rivive nel Rinascimento, non si conoscono le pitture di Pompei, gran parte delle quali trae fondamento nelle descrizioni letterarie. Si conoscevano però queste raccolte bizantine, i passi di Filostrato, ed è straordinario come la natura morta abbia percorso strade simili a quelle antiche, anche assumendo significato spesso cristiano, totalmente diverso. Questi temi dell'Antologia Palatina sono gli stessi delle nature morte dipinte sulle pareti di Pompei, e alcune allusioni di carattere visivo, come la disposizione della frutta in ordine o alla rinfusa, o gli accostamenti di generi diversi (i prodotti del pascolo, i prodotti dell'orto) si riscontrano effettivamente nelle nostre nature morte; il che lascia ipotizzare che il poeta avesse presente delle composizioni pittoriche non dissimili da quelle pompeiane. Del resto, che questa cultura, in parte passata attraverso la mediazione dei poeti romani ma in parte ancora letta negli originali, fosse ancora, quattro secoli dopo, ben presente agli abitanti di Pompei, e naturalmente quando diciamo Pompei noi ne parliamo come di specchio del mondo romano, lo mostra per esempio una famosa iscrizione di parete, ritrovata a Pompei, che cita un famosissimo e molto imitato epigramma di Leonida di Taranto, in cui si racconta che tre fratelli dedicano a Pan le loro reti per uccelli, lepri, e pesci. L'epigramma si leggeva a Pompei ancora tre-quattro secoli dopo la sua stesura, e quindi c'era qualcuno a Pompei in grado di leggere gli originali e di capire la natura morta di quattro secoli prima. Se la Taranto di Leonida di Taranto e la Siracusa di Teocrito, altro grande scrittore di epigrammi, erano nella parte greca dell'Italia, il resto della penisola, gli etruschi, e in particolare il mondo romano, non doveva essere rimasto del tutto estraneo a questa cultura. L'ellenismo, lo sappiamo, è stato una grande cultura di koinè, una grande cultura comune, e vi sono degli indizi, come la "Satura Lanx", il piatto colmo di cibi, il piatto colmo di frutta che si pone all'origine della satira romana, o i parassiti ghiotti di Dossenno, il personaggio goffo dell'Atellana, che bastano a farci intuire che anche Roma, e soprattutto la Campania, terra d'incontro fra queste culture, devono aver sviluppato, in parte autonomamente ma in parte dalla Magna Grecia, i primi elementi di base, cioè il cibo, la frutta, come espressione artistica e letteraria per l'elaborazione artistica della natura morta. La seconda guerra punica e la vittoria su Annibale segnarono un radicale mutamento dei costumi di Roma. La considerazione del cibo nella società romana sembra essere stata, anche per quest'aspetto, uno spartiacque, se ancora all'epoca della vittoria di Pirro nel pieno III secolo a.C. di Manlio Curio Dentato, trionfatore dei sanniti, si poteva narrare, seppure con tutta l'esagerazione di una "laudatio temporis acti", che il piatto di questo signore consisteva in ortaggi che egli stesso raccoglieva nel suo orto e che si preparava da solo. Dopo Zama, l'aristocrazia romana che aveva trionfato su Annibale, Scipione l'Africano e il suo circolo per intenderci, impose uno stile di vita del tutto nuovo e ispirato alle ricercatezze del mondo ellenistico. Non è perciò un caso che il suo poeta simbolo, Ennio, traducesse in latino il poema intitolato "edilphogetica", il dolce mangiare, il mangiare bene, un manuale di gastronomia, che sembra scritto per una corte macedone o epirota e che potrebbe fare da commento ai piatti italioti a base di pesce. Traduceva Ennio: "Come a tutte superiore la murena di Clopea, i suoi moscardini migliori sono quelli di Enos, e piena è l'ostrica ruvida di Abido; il pettine provenga da Mitilene o da Brindisi, da Ponto, presso Ambracia, e buono è il sarago, prendilo se grosso; il pesce porco migliore sappi che è quello di Taranto. Cerca di comprare l'eloe di Sorrento e il glauco di Cuma. . .Vi è poi il melanuro, il tordo, la merula, il polpo di Corfù, la grossa calvaria e il fantasma di mare, la polporina, i muricelli, il murice e anche i dolci ricci". Quindi si presenta come una lista di pesci, sembrano i consigli per un cuoco o per un padrone di casa che deve ordinare al suo cuoco di preparare una cena a base di pesce, anche se Plauto ci informa che a Roma era ormai impossibile affittare formalmente un cuoco al "forum caprinum", dove si affittavano i cuochi. Doveva essere ancora difficile procurarsi a Roma un polpo di Corfù, o le ostriche di Abido, che sono sulla costa dell'Ellesponto, ma già gli Scipioni stavano costruendo le loro prime ville del Golfo di Napoli, e qui doveva essere disponibile l'elogue di Sorrento e il glauco di Cuma, una città che fin dal V secolo a.C. aveva fatto delle cozze, allevate nelle sue lagune, addirittura l'emblema delle proprie monete. Notate che nel brano citato vi sono due ordini di frutti di mare o di pesci ricordati: quelli della costa macedone (Abido, Enos, Mitilene, ecc.), e poi corre un'interpolazione, come se Ennio avesse aggiornato un poemetto scritto per una certa corte inserendo due o tre linee di frutti di mare e di pesci che i romani potevano tranquillamente trovare davanti alle loro ville, a Taranto, Sorrento, Cuma, ecc.

Se la gastronomia ha certamente fatto parte della cultura di tutte le corti ellenistiche, a molte di esse dev'essere stata comune anche la rappresentazione artistica delle vivande. Pergamo dev'essere stato uno dei centri artistici in cui sembra essersi avuto un particolare sviluppo della natura morta dipinta. Lavorava, infatti, molto probabilmente su commissione della corte di Pergamo l'anonimo maestro che creò verso la metà del III sec. a.C. l'originale da cui deriva il quadro di Ercole e Telefo della famosa basilica di Ercolano, nella quale egli inserì, accanto ad Arcadia seduta, una vera e propria natura morta: un cesto di vimini colmo di frutta alludente alla fertilità della regione. E di Pergamo era anche un altro artista, del II sec. a.C., che, riprendendo i temi delle ripolografie, dipinse tra l'altro una stanza dal pavimento non spazzato ma cosparso dei rifiuti di un banchetto: ossa, valve di molluschi, gusci di noce. Al centro di questo pavimento era collocato un emblema con le colombe posate su un bacino pieno d'acqua, un motivo non lontano dalla natura morta in senso stretto. Entrambi i motivi ci sono documentati da varie repliche di età romana che mostrano la celebrità a cui giunsero. La combinazione tra lo sporco del pavimento e l'eleganza del tema delle colombe restituisce il senso di una pittura che diventava sempre più laica e sofisticata, in cui la ricerca artistica si esprimeva anche nella scoperta di temi sempre più evasivi, eleganti e disimpegnati. Non conosciamo purtroppo il centro artistico a cui attribuire l'originale del quadro pompeiano con Ercole e Onfale. L'ultima figura sulla destra è un vecchio a cui si appoggia Ercole, che ha in grembo un trionfo di frutta; una scena che molto probabilmente risale all'originale perduto; potrebbe anche essere di scuola pergamena considerando la muscolatura dell'Ercole, così come si può supporre che risalga all'originale il bel cesto di frutta che troneggia al centro del quadro di Peritò e i centauri. Tutta la composizione è giocata sul senso della natura morta: il cesto è il regalo di nozze che il centauro sta offrendo a Peritò, esattamente calcolato all'incrocio delle aste oblique dei due personaggi principali. I centauri sono il popolo delle montagne e dei boschi: offrono la frutta che raccolgono nei loro boschi, un grappolo di uccelli legati per le zampe, cacciagione; è la natura che offre il suo contributo alla civiltà, alla cultura greca.

Un altro luogo che giocò un ruolo fondamentale nello sviluppo della natura morta fu naturalmente Alessandria d'Egitto, il maggior centro di cultura scientifica dell'ellenismo. Sotto il patronato della dinastia dei Tolomei, il museo e le grandi biblioteche, già eredi delle scienze plurimillenarie dell'Egitto faraonico (uccelli e frutta compaiono nelle rappresentazioni funerarie delle tombe egiziane da migliaia d'anni prima di Cristo), si fecero continuatori dell'enciclopedismo naturalista aristotelico sugli animali, le piante, le rocce, da cui scaturirono trattati di medicina, di botanica, di veterinaria, ma certamente, data la presenza di una corte fastosa, anche di gastronomia. La conseguenza nel campo artistico dev'essere stata il formarsi di un'iconografia naturalistica di altissimo livello, che ha reso possibile opere di grande impegno, come quella famosa veduta di fondo marino con pesci, crostacei, e molluschi, da cui derivano i famosi mosaici pompeiani con pesci di primo stile. Questi non potrebbero chiamarsi "nature morte" nel senso tecnico moderno del termine, sono però essenziali per capire l'ambito da cui derivano le vere nature morte con pesci, come il mosaico con molluschi, pesci e uccelli che troviamo, combinato con i temi delle anatre nilotiche e del gatto che afferra il pollo, al centro del pavimento dell'ala XXX nella Casa del Fauno a Pompei. E' una composizione drammatica o drammatizzata perché vi è rappresentata al centro la lotta del polpo e dell'aragosta, come se fosse un duello drammatico con i comprimari, la costruzione di un'azione tragica. E' una natura viva, non una natura morta; non sono i pesci da bancone, anche se molti di questi poi ritornano morti in altre composizioni dove l'origine egiziana è chiarissima non solo per il tema del gatto ma anche per la rappresentazione delle anatre nilotiche con il loto nel becco.



Se tocca ai mosaici seguire l'introduzione della natura morta a Pompei all'epoca del primo stile, la comparsa nella pittura parietale coincide con il secondo stile pompeiano nella prima metà del I sec. a.C. Alcune delle più belle nature morte sono proprio di questo periodo. Talora si tratta di pittura di pittura, cioè la rappresentazione di veri e propri quadretti ("pinaces") muniti dei loro sportelli protettivi appesi alle pareti degli edifici, la cui rappresentazione illusionistica è il tema maggiore di questo stile. Un esempio molto istruttivo di una galleria di quadri di quest'epoca è la pinacoteca della casa 162-4, purtroppo perduta, ma di cui abbiamo una riproduzione ottocentesca in disegno. Il pittore aveva dipinto una parete di quarto stile, una vera e propria galleria di nature morte. Tanto più interessante, giacché sembra andare in senso opposto, è perciò l'uso della natura morta come raffigurazione di elementi reali non inquadrati all'interno della quinta architettonica del secondo stile. Un'altra categoria di nature morte nel secondo stile non è nel quadro ma è libera sulla parete. Liberi dalla cornice, i cesti di frutta e la cacciagione tornano come in un epigramma ellenistico alla loro funzione di offerta, decorando quei portali di santuari che costituiscono il tema architettonico più frequente. Un frammento pittorico pompeiano conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli proveniente dalla prima casa a nord di Fabio Rufo rappresenta l'ingresso di un santuario, una grande scenografia di secondo stile in cui alle porte e alle pareti sono "appesi" animali e cose. Quindi la rappresentazione ricalca un epigramma ellenistico, del tipo 'Un pastore dedicò gli animali che aveva preso alla rete: 'A te, Dioniso, dedico quelle tali cose''. Il soggetto di queste raffigurazioni diventa così l'evocazione letteraria. 


Altra occasione per la natura morta è in questa fase del I secolo a.C. la rappresentazione di ghirlande. La matrice ellenistica di queste rappresentazioni è confermata da immagini musive più antiche, per esempio le ghirlande con frutta delle foglie del vestibolo della Casa del Fauno. In queste nature morte di secondo stile si raggiunse forse il punto più alto nella breve storia del genere nelle città vesuviane. Traspare, infatti, una qualità di rappresentazione realistica ancora tutta ellenistica, ma con qualche differenza. Questa cacciagione, questi pesci accostati a vassoi d'argento, come a Boscoreale, non sono più, se non nella funzione di qualche poeta novus, i doni dei cacciatori e dei pescatori degli epigrammi di Leonida di Taranto e di Teocrito, ma agli occhi dei ricchi romani che vivevano in queste stanze, come quelle di Oplontis, esse sono ormai la materia prima preziosa della suppellettile dei banchetti, la cena, il rito sociale divenuto fondamentale per la società romana. Orazio scrive: "Bene vivit qui bene cenat", cioè la misura del bene vivere è un buon pranzo, un buon banchetto. Per alcuni di questi ricchi gli stessi cibi erano tanto più significativi perché non erano stati comprati al mercato. Una testimonianza importante di queste culture furono le leggi che vietavano le cose preziose, con cui si cercò invano di arginare le crescenti spese per i banchetti. Se nel 161 a.C. la spesa prevista per un pranzo comune era di 10 sesterzi e per un pranzo festivo 100 sesterzi, ottanta anni dopo, nell'81 a.C., si era dovuto moltiplicare per tre il limite di quelle leggi. A dispetto delle severe raccomandazioni di Catone e della sobrietà delle parche ricette di verdure, le cose andavano nella realtà assai diversamente, se un pranzo, anche improvvisato su due piedi da Lucullo per due ospiti, non costava meno di 200.000 sesterzi. Nessuno, se poteva, si contentava più del cibo di una volta. La zia di Varrone (I sec. a.C.) ricavava dalla sua villa, in cui allevava pollame di pregio, il doppio della rendita di un podere tradizionale, e lo stesso Cesare, che pure aveva costituito una polizia armata per sequestrare i cibi vietati dalla legge licinia, dava poi personalmente un pessimo esempio spendendo milioni di sesterzi per un banchetto pubblico per il pontificato, per il quale aveva fatto venire ostriche da Taranto, in barili pieni di acqua di mare. Lo stesso pubblico erario sanciva in un certo senso quell'ideologia allorché tesaurizzava nelle riserve oro dello Stato non l'oro, ma, come se fosse stato oro e argento, centinaia di chili di "lapirticium" della Siviglia, una spezia per condire il cibo che aveva fatto la fortuna di Cirene. E' questo il genere di cultura di lusso che permetterà all'ingegnoso Caio Sergio Orata, cavaliere romano, di diventare famoso e ricco per aver inventato tra l'altro il modo di allevare nel Lucrino e negli altri specchi d'acqua flegrei orate, spigole e ogni altra prelibatezza, e al generale di Cesare, quello famoso del De Bello Gallico, di fornire a credito al suo capo, a Cesare, per un banchetto di trionfo, migliaia di lamprede. Un'osservazione sui servizi da mensa di questo periodo conferma facilmente i tanti aneddoti sulle murene, le triglie, i cefali, e gli altri pesci preziosi che l'aristocrazia romana, Ortenzio in testa, dimostrano di conoscere così bene, anzi di amare e di vezzeggiare non più come cibo talvolta ma come cagnolini che accorrono al richiamo del padrone. I ritrovamenti archeologici dei servizi da mensa, il tesoro di Boscoreale, il tesoro del Menandro, testimoniano l'elaborata ricercatezza della contemporanea produzione dei "cellatores argentari" che prevedevano perfino sofisticati tegami fatti a posta per cucinare e servire il pesce; ci sono le forme per cucinare le lumache, gli speciali cucchiaini (le "cocleae"). E come in un gioco di specchi la natura morta è raffigurata sui più raffinati oggetti da banchetto, le coppe del tesoro di Boscoreale, sui vasi di bronzo, e perfino sui pettini delle signore. Le oltre trecento nature morte pervenuteci dalle città vesuviane appartenenti agli ultimi ottant'anni di storia della vita della città dispiegano un repertorio abbastanza ampio di soggetti, accomunati fondamentalmente dal concetto dell'"utilitas" per la cena, e in generale per le esibizioni di lussuria, più che dal puro bello, come indica la mancanza di quadri con fiori. Pur avendo ovvia affinità con altri generi di rappresentazione, per esempio la pittura da giardino, gli animali vivi della natura morta se ne differenziano soprattutto perché sono visti come cibo, come cacciagione, prossimi a diventare cibo, anche quando, epigrammaticamente ignari, sono intenti a mangiare frutta e verdura. La pernice mangia del cibo non sapendo che diventerà cibo a sua volta; è il tema quasi filosofico dell'animale che mangia senza sapere che sarà mangiato. Un'altra categoria sono i commestibili vegetali e i derivati da essi. Ci sono poi gli oggetti per la mensa e la dispensa (anfore, vasellame metallico, fittile e vitreo, sostegni, canestri e statuette), il denaro e gli strumenti scrittori. Questi ultimi sono gli unici che sfuggono alla definizione data di "xenia": non è più la frutta e la roba da mangiare, ma la mescolanza che spesso si ha nei quadri con i temi precedenti (il denaro e l'oggetto per scrivere con la frutta) è perché le nature morte rispondono al tema del bello e dell'utile.

Quando osserviamo questi quadretti pompeiani dobbiamo sempre ricordare che, a differenza di una natura morta moderna, essenzialmente opera originale in cui il pittore ha aggiunto qualcosa di proprio al genere gareggiando con quello degli altri e sperimentando nuovi accostamenti di forme e colori, le nature morte vesuviane sono copie di originali. Questo spiega la qualità generalmente mediocre dell'esecuzione, da cui deriva la difficoltà di identificarne i soggetti, soprattutto animali. Non ci possiamo attendere da questi quadri l'esattezza anatomica di una tela di un maestro fiammingo. Si spiega così anche la ripetività o monotonia delle rappresentazioni, che ci permette di immaginare gli originali da cui sono tratte.

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